
Ho parlato della lettera “k”, facendo riferimento al suo diffuso impiego nella pratica del textinge, analogamente, nella scrittura in chat.
L’ambiente non normativo della comunicazione privata via social network è all’origine certamente della diffusione dell’uso della “k” nella scrittura dei giovani.
Incentivano la permanenza di questa prassi il “risparmio” rispetto a “ch”, in termini economici finanziari (all’epoca degli sms a pagamento) e anche per le note difficoltà della scrittura su dispositivo con schermo touch.
Si comprende l’atteggiamento di stigmatizzazione dell’uso di “k” da parte degli insegnanti (e anche io lo sono): in tale veste essi hanno il ruolo, spesso scomodo, di controllo della lingua, orale e scritta.
Il maggior problema dell’insegnante non è essere contro la scrittura social, ma osservare come le forme non ortodosse, o non corrette, dilaghino senza misura nei testi standard (a scuola, appunto).
La distinzione dei repertori nella competenza individuale comporta, non soltanto oggi, la conoscenza delle prassi ortografiche idonee per ogni contesto.
Su Twitter, a volte la “k” è l’unica salvezza e se ne segnala ampiamente l’occorrenza in messaggi da account Twitter rilevanti (ma si dice il peccato…).
Sta certamente all’impegno della scuola la permanenza della lettera “h” nella scrittura dell’italiano in ambiente social.
Lì dove abbondano le “k”, è davvero rarissimo (il superlativo è forse riduttivo) rintracciare una forma di verbo “avere” senza la dovuta “h”.






