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Tesina: la brevità che fa la differenza

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Spunto interessante per Scritture Brevi è offerto dall’articolo di Giuseppe Tesorio pubblicato nello Speciale Maturità di corriere.it.
Titolo: “Breve, efficace, esauriente: la tesina, come conquistare i prof in dieci minuti”.

Nell’orizzonte teorico di Scritture Brevi non sempre vi è un collegamento automatico tra brevità e velocità, ma il connubio appare imprescindibile nel caso dell’organizzazione della “tesina” per iniziare il colloquio dell’esame di stato.
L’ordinanza ministeriale non ne fa esplicita menzione, dicendo semplicemente che “il colloquio ha inizio con un argomento o con la presentazione di esperienze di ricerca e di progetto, anche in forma multimediale, scelti dal candidato”.
Ma è vero che l’enorme vantaggio pratico della esibizione dei materiali con funzione anche di scaletta ha fatto quasi dimenticare che non ci si trova di fronte a un obbligo; e comunque nessuno, potendo, per l’esposizione, fa a meno di un testo di supporto, specialmente seguendo l’attrattiva della dimensione “multimediale”.

L’autore dell’articolo richiama la necessità di un uso il più possibile personalizzato e creativo di questo strumento, mettendo in guardia dal rischio (reale) di costruire un prodotto stereotipato e superficiale. Nel commento di Tesorio:

“Diciamo la verità, ha perso un po’ il fascino della novità. Molti professori non la vogliono più, si accontentano di una scaletta, di una mappa concettuale, di niente, solo di un’intelligente disquisizione su un argomento «a piacere». Tesine, mappe, progetti, manufatti, comunque è un quarto d’ora in mano allo studente. Solitamente un «copia e incolla», file, immagini e testo frullati in una «web ricerca». Troppo facile? Il prof lo sa. Cosa conta davvero? L’originalità. Un prodotto elaborato personalmente lo si riconosce subito. Peso nella valutazione? Diciamo massimo cinque o sei punti sui trenta a disposizione. Colpire la commissione con gli «effetti speciali» (dal tablet alla videoproiezione), va bene. Ma bisogna assicurarsi che funzioni tutto come si deve (la tecnologia che si inceppa e non parte è una scena frustrante). [...]
Dopo aver scelto l’argomento, il lavoro vero e proprio consiste nel raccogliere i dati e i materiali. Ricercare fonti, letterarie, scientifiche, filosofiche, artistiche, curando in modo quasi maniacale i collegamenti argomentativi. Non bisogna preoccuparsi di essere esaustivi. Non si può dire tutto, bisogna soltanto «convincere» gli interlocutori sull’originalità della propria «tesi». Si può fare, basta non «incollare» file a caso, basta studiare l’argomento, basta metterci qualcosa di personale e creativo. Si può fare, anche senza molti effetti speciali”.

Conoscendo i rischi, sarà possibile sfruttare i vantaggi.

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Il bruco, la farfalla, il mondo

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“Quello che il bruco chiama la fine del mondo, il resto del mondo lo chiama farfalla”

La frase attribuita a Laozi esprime bene l’idea della piccolezza del singolo rispetto all’universo.
Che cosa capiamo, e quanto, dei cambiamenti che ci riguardano?

Ho pensato molte volte che fosse una buona frase per la lingua.
L’agire linguistico che è proprio dell’uomo (con l’unico termine logos il greco esprime l’idea della coincidenza tra il pensiero e il linguaggio) significativamente separa l’uomo dalla percezione del continuo divenire della lingua.
Non facile è renderci conto che la lingua cambia mentre la usiamo.
Ancora meno facile è valutare i cambiamenti.

Certamente i luoghi sono importanti.
La scuola, ad esempio, è impegnata a conservare.
Il maestro dell’Appendix Probi, nel medioevo, elencava le parole latine segnalandone gli errori grafici:
“Si dice (scrive) calida non calda, auctor non autor, auris non oricla”. 
E me lo immagino affannato a difendere una lingua che in bocca agli uomini non era più la stessa, fuori dell’aula, neppure per lui.
Mi immagino anche gli studenti a chiedersi “Perché scrivere au se si pronuncia o?” e “Perché due lettere invece di una”?

Per molto tempo, scrivere in lingua volgare lo si faceva per sbaglio, inconsapevolmente, oppure, all’inverso, per la speciale temerarietà del genio.
Dante intitolò Commedia la sua opera in volgare, riservando la lingua latina alla scrittura dei testi teorici e argomentativi.

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Io non ci rinuncio: ACCA, che carattere!

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Ho parlato della lettera “k”, facendo riferimento al suo diffuso impiego nella pratica del textinge, analogamente, nella scrittura in chat.

L’ambiente non normativo della comunicazione privata via social network è all’origine certamente della diffusione dell’uso della “k” nella scrittura dei giovani.
Incentivano la permanenza di questa prassi il “risparmio” rispetto a “ch”, in termini economici finanziari (all’epoca degli sms a pagamento) e anche per le note difficoltà della scrittura su dispositivo con schermo touch.

Si comprende l’atteggiamento di stigmatizzazione dell’uso di “k” da parte degli insegnanti (e anche io lo sono): in tale veste essi hanno il ruolo, spesso scomodo, di controllo della lingua, orale e scritta.
Il maggior problema dell’insegnante non è essere contro la scrittura social, ma osservare come le forme non ortodosse, o non corrette, dilaghino senza misura nei testi standard (a scuola, appunto).

La distinzione dei repertori nella competenza individuale comporta, non soltanto oggi, la conoscenza delle prassi ortografiche idonee per ogni contesto.
Su Twitter, a volte la “k” è l’unica salvezza e se ne segnala ampiamente l’occorrenza in messaggi da account Twitter rilevanti (ma si dice il peccato…).

Sta certamente all’impegno della scuola la permanenza della lettera “h” nella scrittura dell’italiano in ambiente social.
Lì dove abbondano le “k”, è davvero rarissimo (il superlativo è forse riduttivo) rintracciare una forma di verbo “avere” senza la dovuta “h”.

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Duri e Puri: Kappa, Che carattere!

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Alla prime lezioni dei corsi di Linguistica generale conosciamo il “valore” della lettera “k”.
Simbolo dell’Alfabeto Fonetico Internazionale, “k” indica il fono consonantico noto come “occlusiva velare sorda”.

Prodotto della speculazione linguistica ottocentesca, l’Alfabeto Fonetico Internazionale (sigle: API/IPA) nasce, come è noto, con l’esplicito scopo di fornire un sistema di rappresentazione dei suoni delle lingue con statuto universale, ovvero tale che i simboli possano ineccepibilmente applicarsi alla pronuncia, indipendentemente dalle singole tradizioni alfabetiche normative.

Dopo la separazione storica della scrittura dalla lingua (orale), avvenuta di fatto a partire dalla standardizzazione grafica promossa con l’avvento dell’era della stampa, l’originaria corrispondenza tra lettera e suono osservata alla nascita della scrittura (literacy) è perduta, e mai più ricercata.

Alla scrittura standard non interessa la trascrizione della lingua (non interessa, diciamo così, la lingua).
E non importa quanto ampia sia la distanza, e quanta fatica costi apprendere le regole (le non-regole) di una scrittura poco fonetica.

Prova ne sia la storia dei regolari fallimenti di ogni proposta di riforma dello spelling per l’inglese, mentre è evidente la difficoltà riscontrata dal parlante inglese nel momento in cui, nella prima fase della scolarizzazione, questi viene a contatto con una scrittura che non ha nulla a che fare con la lingua che conosce e parla.

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L'uovo di Twitter (Che carattere!)

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In armonia con l’immagine dell’uccellino che è il logo di Twitter, appare appropriata e molto significativa la figura dell’uovo che il sistema rende disponibile all’apertura dell’account.

Scegliere la foto del profilo per i nostri account nei social media è effettivamente non facile.
Ho verificato che nel diario di Facebook è più frequente modificarla (insieme alla foto di sfondo): del resto il rapporto che si instaura tra i contatti è legato, come qui dicevamo, alla “familiarità” di qualche tipo, alla confidenza.
Ciò comporta rilassatezza rispetto al mezzo, così che negli status si scrive regolarmente ciò che ci viene in mente, a volte senza dare troppo peso alle espressioni.
E, rispetto all’immagine, è facile sceglierla in continuazione tra un repertorio personale, ma anche riprendendola da altri media (foto di film, attori, cantanti, fumetti).

L’ambiente più professionale di Twitter (che poi, standoci dentro, si trovano molti amici e dipende, come sepmre, dall’idea di “piedistallo” o “trampolino”) comporta tendenzialmente una maggiore stabilità nel tempo della foto del profilo: un po’, all’inizio, per affermarci, nel senso di renderci riconoscibili al pubblico che non ci conosce, un po’ per favorire, giornalmente, l’individuazione di noi nella pratica dello scrolling, col dito o con cursore (come emergere dall’anonimato; vale anche per la scelta del nome, su cui seguirà post).

Intanto che ci pensiamo, l’immagine dell’uovo ci accoglie, e con essa siamo accolti.

La figura è azzeccata perché riflette l’idea della nascita da mamma uccellino e il tipico bisogno di aiuto: come si scrive un tweet? come funziona l’hashtag? e la chiocciola? come si ritwitta? come si inoltra? aiuto!
Davvero è difficile saperlo del tutto finché non è “dentro”.

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Leggete fino in fondo! (ci siete voi…)

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Trovato via Giulia Sciannella (@muuffa) un commento di Nicola Di Turi (@nicoladituri) e via Lotar Sánchez (@LotarSan) il riferimento a un report del portale americano Slate svolto con Farhad Manjoo (@fmanjoo) e la società Chartbeat (che trafila!).
Si parla dei tempi di lettura dei testi nell’età di internet.
Citiamo alcuni passi dall’intervento di Manjoo, che è lungo 3 pagine, immagino volutamente (mentre sotto metterò i link):

“Sarò breve, perché non resterete qui a lungo. Ho già perso un bel po’ di lettori. Su 161 persone che sono finite su questo articolo, circa 61 (il 38 per cento) sono già andate via. Siete “rimbalzati”, come si dice in gergo, cioè non avete provato alcun interesse per questa pagina. [...]
… ehi, che fate? State già twittando questo articolo? Non lo avete neanche letto! Che succede se nelle prossime righe propongo qualcosa di tremendo, come un emendamento alla costituzione che ci obbliga ad aggiungere due spazi vuoti dopo ogni paragrafo?
Ehi, aspettate, anche voi ve ne state andando? Volete commentare? Ma andiamo! Non c’è ancora niente da dire. Non sono arrivato nemmeno al punto. Sarà meglio che lo faccia: su internet pochissime persone leggono gli articoli fino alla fine.”

Seguono dei significativi grafici, che evidenziano il repentino e passeggero andamento dell’attenzione, tra gli estremi della visualizzazione e della lettura, considerando l’operazione di scrolling o lo scorrimento nella pagina digitale.

Alle lezioni di “scritture brevi” si parla del problema della concentrazione e dell’attenzione nella lettura dei contenuti in ambiente digitale.

E’ provato che chi governa un flusso rilevante di messaggi di posta elettronica non raramente omette di rispondere all’eventuale seconda domanda.

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Attenti a quei due (neologismi per #scritturebrevi)

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Partendo dal post sulla “stellina” in Twitter, andranno aggiunte alcune riflessioni sul lessico, per la graduale diffusione, nell’uso social, di nuove forme verbali collegate a tale figura.

Dal modello inglese to prefer deriva l’italiano “aggiungi ai preferiti”, una traduzione tramite parafrasi evidentemente condizionata dalla imperfetta corrispondenza semantica dell’equivalente“preferire”.

L’italiano “preferire un tweet” (“to prefer”) non ha lo stesso rendimento di “aggiungere un tweet ai preferiti”, dove la categoria dei Preferiti costituisce, come sappiamo, non solo idealmente, un contenitore, un cassetto dei tesori, o dei ricordi.

La relativa pesantezza della circonlocuzione può essere all’origine della rapida diffusione del neologismo “stellinare”.
Stridente per ora (lo è?), per il comune condizionamento percettivo esercitato dalle forme nuove, rafforzato in questo caso dalla diffidenza o ostilità per il trattamento della lingua nell’alveo social.
La mia esperienza è che basta usarlo poche volte per verificarne l’efficacia in termini formali e funzionali.
“Stellinare”, in tutte le forme coniugate, è comunque ampiamente attestato dentro e fuori da Twitter, sempre in ambienti social, sempre nei registri non formali.
“Questo me lo stellino”, “Stellinate!”, “Da stellinare!”, e così via.

Poche le occorrenze, ma comunque attestate, del “preferire” declinato. Ed ecco “Preferiscimi (un tweet)”, “Preferiscimelo”; ma il richiamo dell’italiano standard “preferire” attiva un confronto che accentua il carattere “scorretto” della forma e ne limita la diffusione e, presumibilmente, la fortuna, rispetto al più libero “stellinare”.

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Voi come “dite”? (note di vocabolario di #scritturebrevi)

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Dopo la notizia di ieri dell’inserimento del valore semantico social di tweet nell’Oxford English Dictionary, ho pensato di segnalare l’alternanza delle varianti tweet e twit in italiano.

L’interferenza linguistica (Roberto Gusmani), nel caso di twit parlerebbe di “prestito integrato”.

Possiamo segnalare che l’Accademia della Crusca nel 2007 cita contestualmente le forme “twit, più fedelmente tweet”.
Più recentemente nel Vocabolario della Treccani on line (2012) l’entrata è “tweet”.
La versione italiana di Wikipedia alla voce Twitter cita ed usa tweet col corsivo (“Twitter” è in tondo), il che ne suggerisce la percezione di parola straniera, un forestierismo.

Procederò alle verifiche sui dizionari.
Nel frattempo, per soffermarci sugli usi social, dirò che personalmente mi capita di alternare le due forme senza particolare motivo (potete verificare al mio account Twitter o nei vari post di questo blog).
Alternanze che ritrovo diffusamente negli utenti, segno che la regola, semmai ci fosse, non sarebbe ancora stabilizzata.
Si registra ancora la variante di stile italianizzato “tuit”, assimilabile alle rese “follouare”, usata come vezzo o come gioco, sempre occasionale.
Per i derivati “twittare” è solo con la “i”, che induce l’idea della vocale breve e giustifica il raddoppiamento di -t- per la formazione del verbo, ovviamente in -are. In tal caso la forma base sarà “Twitter”.
Per la derivazione con prefisso re-/ri-twittare e re-/ri-twittato si alternano negli usi, benché la fonte (Twitter) dia come ufficiale ritwittato (dove twitt-: verbo) e analogamente retweet (tweet: sostantivo).

Eppure una differenza c’è: su Twitter twit ha un carattere in meno di tweet, e si sa che su Twitter il “risparmio” può fare la qualità.

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Twitter dalla memoria corta (#iltwitterchevorrei e #tool: Che carattere!)

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La nascita di #scritturebrevi come hashtag su Twitter fa parte del progetto “scritture brevi nel mondo social, il mezzo e il fine”.
Il titolo è fittizio, improvvisato ora, mentre reale e concreta è l’idea di costituire una banca dati digitale di tweet, link, materiali online da registrare, conservare, consultare.
E’ quello che stiamo facendo dallo scorso dicembre, con la preziosa collaborazione di molti appassionati, diventati amici di #scritturebrevi.

La catalogazione è pratica e veloce con Twitter, ma lo stesso mezzo non ci sostiene quanto al momento della ricerca, conservando memoria, come si sa, soltanto di tweet “recenti”.
Del resto l’immagine del cinguettio è strettamente legata all’idea del messaggio evanescente, anche non rilevante, comunque soggetto a sparizione.

Vengono in soccorso a questo punto tool come topsy.com e tagboard.com.
Ecco i link della ricerca di #scritturebrevi con topsy e con tagboard.

Tornando all’evanescenza del mezzo, è vero il problema, già denunciato da Umberto Eco (“Non fate il funerale ai libri”), della difficoltà di leggere documenti salvati in versioni digitali su supporti elettronici presto obsoleti, rispetto alla permanenza dei materiali su carta di epoca antica, o antichissima.
Ogni strumento deve insegnarci qualcosa anche riguardo a se stesso.

Nel frattempo, per Topsy e Tagboard, voglio “fissare” questa occasione ringraziando Gilberto Taccari (@GilbertoTCC) e Claudia Zavaglini (@iltarlo), ai quali ho partecipato l’emozione dell’esperienza del motore di ricerca.
Per il principio della condivisione anche emozionale legata a #scritturebrevi so che mi capiranno.

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Ancora sulla grammatica di #scritturebrevi: #Corsari/#corsari

saussure

Il dibattito odierno (“un dibattere” rende meglio la posizione costruttiva di tutti gli interventi) sull’opzione maiuscolo/minuscolo per l’hashtag “corsari” è una bella immagine della natura della lingua e anche della rilevanza del punto di vista nell’osservazione dei fatti di lingua.

Vari elementi entrano in gioco nella scelta o preferenza:

- Osservare la lingua come un “dato” o come un “farsi”.
- Considerare lo stile come un “mezzo” o come un “fine”.
- Vedere lo strumento (in questo caso Twitter) come un luogo dell’espressione o come l’espressione esso stesso.
- Interpretare “adesione” e “creazione” come modalità distinte o interrelate.

Norma e uso sono i confini entro cui la lingua si muove.
Non ci sarebbe “lingua” senza la comunità.
Il segno linguistico è immutabile (peso della collettività, solidarietà col passato, relazioni interne tra i segni) e mutabile (per l’azione degli stessi fattori) – (Saussure)

#Corsari vs #corsari
Il “sistema” per una volta ci lascia liberi.
Useremo di più la maiuscola o la minuscola? Sarà interessante verificare.
Ogni apporto individuale costruirà la regola.

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