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Sosteneva Tabucchi

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Sosteneva Tabucchi che oltre al latino, l’unica lingua adatta a scrivere un Requiem è il portoghese. Perché il portoghese, per lui, era un luogo di affetto e riflessione. Forse per questo ci è morto il 25 marzo di un anno fa, a Lisbona, dopo averne portato un pezzetto in Italia. E devo solo a lui se un giorno, per conoscere la sua Lisbona, ho deciso di scoprire chi erano Pessoa e Saramago.

Sosteneva Tabucchi che i sogni non si devono raccontare, che è un po’ come dare l’anima. Però ha fatto sognare Dedalo, e l’ha fatto vagare per tutta la notte in un labirinto. Ha fatto sognare anche Majakovskij, legato alle sue saponette anche durante il sonno, o Tolouse-Lautrec, facendolo ballare con le sue gambe lunghe nuove di zecca.

Sosteneva Tabucchi che uno scrittore non potesse che essere impegnato, e che per farlo dovesse entrare nei panni delle persone che descriveva. Sosteneva Tabucchi“Il mio «impegno» consiste nell’esplorare le diversità rispetto a me stesso, nell’indagare la realtà con gli occhi altrui.”

Per questo, sosteneva Tabucchi, non si può restare in silenzio quando il proprio paese va allo sfascio. Si deve gridare ad alta voce tutto quello che non va. Si deve scrivere una lettera aperta al Presidente Ciampi per ricordare quanto sia importante, in una nazione libera, distaccarsi dagli ideali delle dittature o per dirgli che, in fondo, l’Italia la si criticaperché le si vuole bene, nonostante le sue contraddizioni. E che, anzi, molto bisognerebbe fare per cambiarla.

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We don’t need no education (ma sarà poi vero?)

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È di oggi uno splendido articolo a firma di Stefano Bartezzaghi apparso sul cartaceo di Repubblica e riportato da alcuni siti (Il Post, ad esempio), dal battagliero titolo: In difesa del latino a scuola. Si tratta di un articolo scritto in risposta all’accorata lettera di un padre disperato per l’amore di suo figlio verso una lingua inutile e “morta come la nostra classe politica”: il latino. Quella materia di cui - ahimé - ero a mia volta innamorata quando ero sui banchi di scuola. E non solo perché le traduzioni per me erano come parole crociate - un gioco di incastri, di trasposizioni di stati d’animo da collocare nel giusto modo e al giusto posto - ma perché è grazie al mondo latino (e a quello greco, non dimentichiamolo) che siamo quel che siamo. All’autore di quella lettera basterebbe darsi un’occhiata attorno per vedere quanto poco morto sia quel mondo. Ed è sufficiente che apra bocca - o scriva, che è lo stesso - per concretizzare la vitalità di quella lingua, che è sempre lì, si è solo trasformata.

Pur comprendendo la preoccupazione di un genitore per le sorti del figlio, condivido in pieno un semplice assunto di Bartezzaghi che spiazza in un lampo tutti i supporters di questa o quella materia all’interno dei programmi scolastici:

Ma quello che rende volgare (in senso tecnico) la contrapposta opinione del padre [...] è proprio la concezione delle materie scolastiche come strumenti utilitari, un'attrezzeria tecnica che a scuola ci viene consegnata perché «ci servirà» nella vita. [...] L'idea di quantificarne l'utilità è gemella all'idea di depurare i bilanci pubblici dagli investimenti per la cultura e dal sostegno a tutte quelle attività che l'economo considera improduttive e «senza ritorno». [...]

Un giorno un commissario leggerà i programmi scolastici con un paio di affilate forbici: quella sera a essere fatto a coriandoli non sarà il solo latino. La storia, non è forse "morta" per sua stessa definizione? E la filosofia? E a cosa serve la matematica, a un futuro avvocato o ortopedico? A cosa servono le lezioni di inglese, quando si sa che l'inglese lo si impara solo sul posto? La verità è che la scuola è utile né inutile: è a-utile[...].

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Enrica Antonini
Un'ingenua istruita e saggia, aggiungo io. Un bellissimo post, complimenti, molto appassionato. Concordo con ogni parola ... Leggi tutto
Sabato, 23 Marzo 2013 17:38
Veronica Adriani
Ti ringrazio, sono felice di non essere l'unica a pensarla così ... Leggi tutto
Sabato, 23 Marzo 2013 17:46
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High fidelity made in Rome

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Se non avete mai avuto l’occasione di vedere il film High Fidelity o, ancor meglio, leggere l’omonimo libro di Nick Hornby, beh, fatelo. Oltre alle tormentate storie d’amore del protagonista scoprirete, infatti, che prima dell’avvento dei megastore, si potevano vivere situazioni come questa.

Di articoli che trattano della crisi dei piccoli negozi di musica e videonoleggio, il web è pieno. Oggi, girando in rete, ho trovato però la conferma che a risentire della crisi generale del mercato audiovisivo non sono solo i piccoli distributori, ma anche i grandi. Il Regno Unito, culla della musica moderna, sta risentendo del calo degli acquisti nel settore al punto che dagli anni ’80 ad oggi i negozi indipendenti di musica sono diminuiti di un terzo. E che a chiudere non sono solo i piccoli distributori, ma anche dei colossi come HMV, entrata in amministrazione controllata lo scorso 15 gennaio.

I megastore, quindi, che negli ultimi anni hanno sostituito in parte o del tutto le funzioni dei piccoli negozi di ogni genere, iniziano a risentire della concorrenza di forme alternative di commercio. Generalmente, ad essere imputati come la causa prima del fallimento dell’industria musicale e audiovisiva sono i canali dello scambio peer to peer (l’uso e l’abuso dei vari eMule e Torrent, per capirci), e la crescente diffusione dello streaming o del download di singoli brani o film. Fenomeno in crescita anche in altri settori, se si pensa alla crescita del mercato degli ebook in Italia (qui le stime aggiornate a maggio 2012). Ma sarà poi tutta colpa degli mp3?

Proviamo a ragionare un attimo sul servizio offerto da grandi catene come Feltrinelli libri&musica, i vari Virgin megastore o vere e proprie istituzioni come la KulturKaufhaus Dussmann di Berlino. Enormi, fornitissimi, consentono al cliente di perdersi letteralmente tra gli scaffali, approfittando delle postazioni di ascolto presenti in molti di essi (basta passare il disco su un lettore ottico e il gioco è fatto). Di solito chi entra in un megastore sa già cosa cercare, perché in molti casi ha già letto recensioni in internet dalla fonte che ritiene più affidabile. Comprare un disco (o un libro, o un dvd) non è poi così diverso dal comprare un paio di scarpe: si entra, si prova, si sceglie, si esce. In totale autonomia.

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Silvia Lovati
Vabbè ma adesso devi dirci per forza dov'è questo negozio di fiducia! Magari diventa anche il mio! ... Leggi tutto
Lunedì, 11 Marzo 2013 09:32
Veronica Adriani
Ahahah! Ok, gli faccio pubblicità, allora! Si chiama Idee musicali, sta in zona Subaugusta da quando ne ho memoria ... Leggi tutto
Lunedì, 11 Marzo 2013 11:27
Silvia Lovati
Da paura. Credo di aver capito qual è. Appartengo ai Tuscolani anch'io. Ci farò un salto!... Leggi tutto
Lunedì, 11 Marzo 2013 18:11
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Di eloquenza, ideali e di altre sciocchezze

Doverosa premessa: non mi piace parlare di politica in contesti in cui non è necessario farlo. D’altro canto la mia coscienza non mi permette di trincerarmi in un giorno così importante dietro un silenzio irreale, tornando domani a postare poesie, canzoni, foto, boutade. La politica è parte della vita, siamo noi: per una volta posso fare un’eccezione.

In questi due giorni di fervore elettorale, come sicuramente molti di voi, ho letto, ascoltato e visto di tutto: editoriali,  vignette, pronostici di mesi fa (più o meno azzeccati), tweet, stati di Facebook, discussioni che mi hanno vista come protagonista o come spettatrice.

Tralasciando i commenti della stampa italiana ed estera, alcuni dei quali assolutamente preziosi, una cosa mi ha colpita più del resto: sono tanti gli italiani che tra ieri ed oggi si sono dichiarati “a lutto”. Le motivazioni sono le più varie, più o meno condivisibili. Io, personalmente, anche se non l’ho fatto prima, mi dichiaro ora a lutto solo per quanto segue.

Sono a lutto perché sono disorientata. Perché nel mare magnum della campagna elettorale culturalmente più povera della storia d’Italia non ho trovato contenuti chiari, ma solo slogan acquosi e indistinti. Una pochezza intellettuale estrema, nei dibattiti, nei manifesti, nei programmi, nei modi di comunicarli. Non solo un’assenza di verità, che pure sarebbe legittimo pretendere da chi si professa buon amministratore della cosa pubblica, ma un’incompetenza comunicativa di fondo, un’autoreferenzialità costante e costantemente vuota. Una retorica fatta di urla anziché di parole, segno che l’arte oratoria (e la capacità persuasiva, di conseguenza), è evidentemente cambiata, insieme ai tempi, nei modi e nelle forme.

Comunque si sia votato, comunque la si pensi, qualunque sia il risultato di queste elezioni per ciascuno di noi, credo che sia la morte della politica per come l’hanno conosciuta i nostri padri e i nostri nonni. Quella “partigiana” nel senso più puro del termine, quella che ha ispirato il Don Camillo di Guareschi. Quella che trovava impensati punti di accordo partendo da posizioni distanti e passando per discussioni accese. Credo, in sostanza, che sia la morte delle ideologie e delle differenze: la morte dei messaggi.

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Parolemania (ovvero nuove sfide tecnologiche a colpi di congiuntivo)

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Chiunque di voi abbia uno smartphone lo sa: da qualche tempo è entrata a far parte del mondo digitale una nuova applicazione. Segni inequivocabili della follia che si cela dietro la medesima, sono: schiena curva sullo schermo, dita che si muovono velocissime in verticale, orizzontale, diagonale - e, a volte, anche in tondo - sguardo fisso e labbra serrate. Quella che si svolge su quello che una volta era un semplice telefono è una sfida all’ultimo sangue. Amici per la pelle si tolgono la parola, perfetti sconosciuti incontrati al momento diventano nemici mortali, la partita ha inizio, e chi la vince pubblica un nuovo achievement su Facebook. Sono i nuovi schiavi delle parole: giocatori incalliti di Ruzzle.

Tanto successo ha avuto l’applicazione che è nata presto una sua copia su Facebook: Zuffle (un po' come se per contratto questi giochi non potessero contenere nel nome più di sei lettere). Il meccanismo è lo stesso: chi fa più punti trovando più parole, vince. Le lettere hanno un valore, in modo tale che nel conteggio finale una V valga più di una più comune O, come succede nel tradizionale Scarabeo. I trucchi che permettono di totalizzare punteggi impressionanti barando alle spalle dell’avversario impazzano, segno che la popolare app ha ormai preso piede in modo dilagante.

Eppure, tra i giocatori più incalliti, c’è chi non conosce l’antenato di Ruzzle, quello con cui - personalmente - ho passato tante giornate della mia vita, fra dadini colorati e clessidre impietose, tenendo sempre a portata di mano un fido dizionario che sancisse inequivocabilmente le parole che si potevano e non si potevano ammettere. Glorioso reperto dei tempi che furono (e che nel mio caso, ammetto, sono ancora), era il Paroliere, quel Ruzzle / Zuffle / non so cosa, vagamente old style ma perfettamente funzionante per passare una serata con gli amici o mettere su una piccola sfida casalinga a colpi di congiuntivo.

Una preziosa testimonianza fotografica, qui sotto. Fido Paroliere, R.I.P.

 

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Enrica Antonini
Ce l'avevo anche io il paroliere... Che nostalgia.... Lode e gloria a lui.
Martedì, 19 Febbraio 2013 10:46
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Si inizia...e inizio anch'io

Quando mi chiedono quali sono gli anni della mia vita che ricordo con più piacere, non ho dubbi: sono quelli dell’Università.

Non fraintendetemi: non è solo perché nella facoltà di Lettere e Filosofia c’erano prati, panchine, palme, gatti, porte a vetri e sole a profusione (sì, quello ha influito nelle lunghe giornate in cui non sapevo come riempire le quattro ore libere tra la lezione di Storia Medioevale e quella di Letteratura Latina, ma non stiamo a sottilizzare...). Li ricordo con piacere perché lì ho trascorso cinque anni splendidi, a studiare cose che mi piacevano, a conoscere gente interessante e a guardare le cose da altri punti di vista.

È stata dura sfatare negli anni con gli amici il mito dell’umanista tutto letteratura spicciola e chiacchiere vuote. Nonostante ancora oggi trovi parecchie difficoltà a risolvere un’equazione o a stabilire quant’è 1/25 di 150, grazie a quegli studi sono cresciuta. Ho conosciuto la linguistica, la filologia, l’antropologia, e me ne sono innamorata. Ma soprattutto ho capito - proprio grazie a quegli studi - che le mie attitudini erano certe e non altre. Che come medico sarei svenuta al primo prelievo del sangue. Che come ingegnere sarei ancora sui libri per il primo esame di Analisi. Che come avvocato - nonostante la parlantina non mi manchi - il mio cliente sarebbe stato condannato perché quasi sicuramente al momento clou mi sarei appigliata al comma sbagliato dell’articolo sbagliato.

Con questo non voglio dire che sia stato tutto rose e fiori: sarebbe ipocrita e piuttosto inverosimile. Ma certamente i lati positivi di quell'esperienza sono stati di gran lunga maggiori di quelli negativi.

Per farla breve, cari Torvergatini, il mio consiglio è: non sciupate questi anni. Anche se dopo sarà dura. Anche se dopo salterete da uno stage all’altro come delle cavallette in tocco e toga. Anche se tra qualche anno rimpiangerete di non aver fatto scelte diverse (perché succederà. Ah, se succederà...).

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Silvia Lovati
Il cuore si sente tutto.
Domenica, 17 Febbraio 2013 15:24
Veronica Adriani
Domenica, 17 Febbraio 2013 17:15
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