Di Veronica Adriani su Domenica, 10 Marzo 2013
Categoria: Si inizia!

High fidelity made in Rome

Se non avete mai avuto l’occasione di vedere il film High Fidelity o, ancor meglio, leggere l’omonimo libro di Nick Hornby, beh, fatelo. Oltre alle tormentate storie d’amore del protagonista scoprirete, infatti, che prima dell’avvento dei megastore, si potevano vivere situazioni come questa.

Di articoli che trattano della crisi dei piccoli negozi di musica e videonoleggio, il web è pieno. Oggi, girando in rete, ho trovato però la conferma che a risentire della crisi generale del mercato audiovisivo non sono solo i piccoli distributori, ma anche i grandi. Il Regno Unito, culla della musica moderna, sta risentendo del calo degli acquisti nel settore al punto che dagli anni ’80 ad oggi i negozi indipendenti di musica sono diminuiti di un terzo. E che a chiudere non sono solo i piccoli distributori, ma anche dei colossi come HMV, entrata in amministrazione controllata lo scorso 15 gennaio.

I megastore, quindi, che negli ultimi anni hanno sostituito in parte o del tutto le funzioni dei piccoli negozi di ogni genere, iniziano a risentire della concorrenza di forme alternative di commercio. Generalmente, ad essere imputati come la causa prima del fallimento dell’industria musicale e audiovisiva sono i canali dello scambio peer to peer (l’uso e l’abuso dei vari eMule e Torrent, per capirci), e la crescente diffusione dello streaming o del download di singoli brani o film. Fenomeno in crescita anche in altri settori, se si pensa alla crescita del mercato degli ebook in Italia (qui le stime aggiornate a maggio 2012). Ma sarà poi tutta colpa degli mp3?

Proviamo a ragionare un attimo sul servizio offerto da grandi catene come Feltrinelli libri&musica, i vari Virgin megastore o vere e proprie istituzioni come la KulturKaufhaus Dussmann di Berlino. Enormi, fornitissimi, consentono al cliente di perdersi letteralmente tra gli scaffali, approfittando delle postazioni di ascolto presenti in molti di essi (basta passare il disco su un lettore ottico e il gioco è fatto). Di solito chi entra in un megastore sa già cosa cercare, perché in molti casi ha già letto recensioni in internet dalla fonte che ritiene più affidabile. Comprare un disco (o un libro, o un dvd) non è poi così diverso dal comprare un paio di scarpe: si entra, si prova, si sceglie, si esce. In totale autonomia.

Eppure lo shopping, specie quando investe scelte “ideologiche” come quelle che stanno dietro a un’opera d’arte, non dovrebbe mai perdere di vista la dimensione umana: quella, cioè, che High fidelity esprime pienamente, coi suoi pro e i suoi contro. Quella che, personalmente, ancora riesco a trovare nel mio negozio di dischi preferito - sopravvissuto all’avvento dei megastore forse grazie alla scarsa concorrenza nella sua zona - che nelle mie passeggiate liceali del sabato pomeriggio era una sorta di tappa obbligata. Lì, ancora è possibile trovare dischi (anche meno noti) a prezzi quasi stracciati (altro aspetto da non sottovalutare in tempi di pirateria!). Da lì viene parte della mia collezione di cd originali: New York City man di Lou Reed, Grace di Jeff Buckley, i miei Weather Report. Proprio ieri ci sono tornata, a spulciare tra cd usati gettando occhiate agli altri avventori che contrattavano coi proprietari sul prezzo dei vinili di Jimi Hendrix.

E mi sono detta che forse, finché il contatto umano conterà ancora qualcosa, quel negozio - come tanti altri - avrà buone chances per sopravvivere al cambiare dei tempi.

(da http://callmeleuconoe.wordpress.com)

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